di Vincenzo Calò
«Giura sulla madre Terra…»
(Euripide, Medea, 745)
Chi ha mai detto che il culto della Grande Madre, la dea fecondatrice che regola il ciclo dei raccolti e presiede alla nascita e alla morte dell’uomo, sia ormai cessato millenni o addirittura milioni di anni fa?
Le cosiddette Veneri steatopigie, statuine dalle forme femminili con i fianchi e i seni strabordanti, non sono soltanto i frammenti in pietra di un culto sepolto nell’oscurità della preistoria né retaggi insondabili che ci osservano da dietro il vetro di una teca del museo.
Un ricordo ancestrale della Grande Madre è ancor vivo in noi. L’interesse per l’Origine da cui tutto ebbe inizio, per il luogo e il tempo da cui scaturì la scintilla della vita, il desiderio di scoprire quale ventre ci ha partoriti, attraversano per intero il pensiero umano, dalla filosofia greca alla teoria del Big Bang. Eppure l’origine di ogni cosa rimane pur sempre un mistero.
Diceva Eraclito: “L’Origine ama nascondersi”.
Del resto la filosofia nacque proprio dall’interrogarsi dell’uomo circa l’origine della natura. Tutta la riflessione dei presocratici (a cominciare da Talete) verte su quest’unico punto: qual è l’elemento a partire dal quale l’universo esiste?
Ma si potrebbe andare ancora più indietro della filosofia greca e scomodare perfino la Teogonia di Esiodo, che racconta della nascita degli Dei, e, infine, la mitologia.
Ecco, la mitologia, appunto. A ben pensarci, e al contrario di quanto comunemente si ritiene, la mitologia non è il punto di partenza del pensiero umano, ma il punto di arrivo. Il suo culmine più alto.
Mitologico non è quel che è primordiale, ma ciò che è futuribile. Ogni scoperta della scienza, ogni fatto accertato, dimostrato, perfino un esperimento riproducibile in laboratorio – ovvero tutto il campionario neopositivistico che ha permesso di applicare a un’ipotesi di partenza l’etichetta della certezza assoluta – diventa, nel giro di una manciata di secoli, mitologia.
Mitologico è il celebre, e ormai dato per inesistente, “anello mancante” della teoria evoluzionistica di Darwin; mitologica è la doppia pretesa illuministica del sapere enciclopedico e della Dea Ragione che rischiara le menti umane ottenebrate dalle religioni e dalla superstizione; mitologica è anche la fisica newtoniana, oggi ridotta a una porzione, nemmeno troppo ampia, della relatività di Einstein. La fisica di Newton deve infatti fare i conti con un inesistente spazio retto (mentre sappiamo che lo spazio, anche infinitesimale, è curvo) e separa le dimensioni di spazio e tempo (il tempo invece è solo una curvatura dello spazio).
Dunque, perfino il nostro modo di pensare scientifico è, se riletto alla luce di qualche decennio o qualche secolo più tardi, strutturalmente mitologico. O quanto meno pronto a divenire tale.
Pensiamo inoltre a quanto sostenuto da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo, in cui i due filosofi francofortesi affermano che la visione mitologica del cosmo e della natura, presso gli antichi Greci, è già illuministica dal momento che essa rappresenta il primo tentativo da parte dell’uomo di sistematizzare le proprie conoscenze e possedere, in tal modo, un’interpretazione del mondo, una vera e propria weltanschauung in anticipo sui tempi.
Ben venga dunque un’artista come Ilaria Beretta, capace di coniugare in sé la scienza e l’arte, la ragione e la mitologia. Che passa con scioltezza dalle raffigurazioni di curve e funzioni d’onda alle sculture in pietra di Piacenza che rappresentano la Dea Madre. Un’osmosi a prima vista paradossale, certamente inaspettata. Eppure perfettamente riuscita.
Ma chi o cosa è la Grande Madre?
Nella cultura occidentale antica era l’elemento Terra, l’archetipo stesso della vita.
Il venire alla luce, l’uscire dall’indistinto, il prendere forma, il fecondare, il germinare: tutto questo era Madre. Tutto questo era Donna.
Un paio di decenni fa alcuni studiosi avanzarono l’ipotesi che durante il Neolitico, presso tutta l’area del Mediterraneo, fosse diffuso una sorta di monoteismo matriarcale, basato sull’esclusivo culto della grande Dea. Teoria poi smentita dai ritrovamenti archeologici, ma è innegabile che le società arcaiche possedessero una struttura rigidamente matriarcale e che il culto della Madre primordiale fosse legato a ogni aspetto della vita umana, sia individuale sia collettivo, che partiva dalla nascita per arrivare alla morte, passando attraverso le cerimonie di iniziazione e i rituali misterici.
I Misteri che si tenevano in onore di Cerere-Persefone, per esempio, celebravano da un lato il continuo volgere delle stagioni e il ciclo del tempo ma, nella stessa istanza, rappresentavano anche il desiderio dell’uomo di sfuggire alla morte, cioè di rinascere su questa terra così come fa un seme, un germoglio, un fiore.
Per questa ragione le figure femminili della Grande Madre erano connesse anche con l’oltretomba. Se c’è la vita, ci sarà anche la morte. Ma, poiché ciò che scompare, ritorna, come fa il giorno con la notte e l’estate con l’inverno, allora anche l’uomo ritornerà a vivere.
Se la Grande Madre è l’inizio, essa sarà anche la fine. Se la nascita è Donna, sarà Donna anche la morte.
Tutto è ciclico. E, nel transito da una cultura all’altra, nello svolgersi del tempo, sotto innumerevoli racconti e mitologie, torna anche la Madre primordiale. Nella cultura cristiana, la Grande Dea si palesa nella figura veterotestamentaria di Eva. Che, per via della sua vicenda, è in sé vita-morte.
Genesi 1, 18: «Poi Dio il Signore disse: “Non è bene che l’uomo sia solo, gli farò un aiuto che gli stia di fronte”». Dove «gli stia di fronte» è la traduzione oggi più comunemente accettata, ben più densa di significato rispetto alla vecchia «che gli sia d’aiuto» (del resto, in ebraico, le due espressioni sono equivalenti), e il cui senso è: «che abbia la stessa dignità dell’uomo».
Ora, ragioniamo un attimo sulla vicenda narrata nel libro della Genesi, ovvero l’ennesima ricerca dell’Origine nella cultura occidentale. Dapprima Dio crea i cieli e la terra, quindi le acque, il sole e la luna, e in seguito gli esseri viventi, e infine l’uomo.
Fin qui, a guardar bene, si tratta di un crescendo della creazione, si assiste alla preparazione di uno scenario (cielo, terra, acqua) all’interno del quale inserire le forme viventi. Si sta raccontando altresì di un passaggio che va dalla creazione di organismi semplici a forme di vita sempre più evolute e complesse. Man mano che Dio procede nella creazione, le forme viventi sono sempre più perfette: dal mondo minerale si passa agli esseri senzienti e da questi all’essere umano, ossia la forma vivente più complessa, la cui creazione avviene solo alla fine, nel sesto giorno.
Ma è il culmine della creazione? È questo l’apice dell’universo? È l’uomo, il maschio, l’ultima creatura di Dio, dunque la più eccelsa, la più perfetta?
La risposta è no. L’ultima creatura di Dio non è l’uomo, bensì la donna. Non è Adamo, ma Eva. È la Donna la creatura che, se interpretiamo correttamente il testo genesiaco, Dio ha posto sul gradino più elevato della scala della perfezione. Il non plus ultra del creato è la donna.
A riprova di ciò, dopo aver forgiato il suo capolavoro, Dio smette di creare. Più di così non si può fare. Il vertice è stato raggiunto.
Ma la figura di Eva, al pari delle altre Grandi Madri, è anch’essa una cifra, oltre che di vita, anche di morte, dal momento che la sua vicenda è legata all’episodio del serpente e della conseguente corruzione interiore che, da quel momento in poi, pervaderà il cuore degli esseri umani. È infatti a quel punto che Eva dà origine all’umanità (Genesi 3-20: «L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché è stata la madre di tutti viventi»).
Torniamo quindi alla domanda che ci siamo posti all’inizio: chi o cosa è la Grande Madre?
Nascita, sviluppo, morte. Ossia, la totalità della vita e della sua esperienza: il dispiegarsi del pensiero umano dalle origini fino a oggi, la riflessione che diventa il senso del nostro esserci, qui e adesso.
La scultrice Ilaria Beretta sembra condensare tutto questo nella sua arte. La Grande Dea è riprodotta con forme essenziali e sbozzate, che ricordano più la bellissima Madre Mediterranea, una scultura di epoca prenuragica che risale al III millennio a.C, che non la Venere di Willendorf, la Venere steatopigia per eccellenza. Infine, a Ilaria, per rendere poeticamente attuale la figura della madre primordiale, basta una spruzzata di colore appena, quasi fosse una chiazza del tempo che sembra fuggire via e che invece è sempre lì, con i suoi cicli infiniti di morte e rinascita. Così l’archetipo può tornare a vivere, a ribadire l’eternità di macro e microcosmi: il modo di fare arte di Ilaria infatti indaga su più livelli.
A differenza di molti artisti contemporanei, Ilaria Beretta riesce a costruire il proprio mondo, e a rendercene partecipi, senza issare alcuna barriera preconcetta tra universi conoscitivi solo in apparenza lontanissimi, quali la teoria delle catastrofi di René Thom e le statuette neolitiche di cui abbiamo appena parlato, tra il principio di indeterminazione di Heisenberg e l’interesse per le culture nomadi. È un modo, al contempo, mitologico e razionale di fare arte, grazie al quale in Ilaria tutto sembra poter giungere a una sintesi finale.
Vincenzo Calò